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25 settembre 2015

La scuola della carne - Yukio Mishima




E' inebriante trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo in letteratura. E il nuovo non sempre lo è in senso strettamente cronologico. In questo caso La scuola della carne è un romanzo scritto nel 1963 da Yukio Mishima (Tokyo 1925-1970) - scrittore giapponese piuttosto controverso -, e mai pubblicato in Italia fino al 2013. Ogni dettaglio del romanzo comunque potrebbe essere senza alcuna forzatura un frammento del mondo di oggi. Niente di futuristico nell'ambientazione o di sperimentale da un punto di vista stilistico. Ciò che colpisce è piuttosto un'audacia poco comune, almeno per la letteratura occidentale, nell'avventurarsi su un terreno complesso e pieno di insidie. Mishima dimostra una sorprendente sensibilità nell'intuire le dinamiche psicologiche dell'animo femminile, che viene qui sezionato con la precisione di un bisturi. 


Il romanzo ha come protagonista Taeko, affascinante donna dell'alta società di Tokio. Taeko ha quarant'anni, un divorzio alle spalle e una vita che ricalca le gabbie dorate della nostra civiltà, fatte di giornate di lavoro ininterrotto fino a tarda sera, ricevimenti per stilisti di alta moda, ristoranti chic, appuntamenti fissi con le amiche e un'elegante e profonda solitudine. Non si tratta di una solitudine che scaturisce da scelte di vita, piuttosto di un elemento specifico dell’essere umani che persiste al di là delle diverse frequentazioni e della vita mondana, radicata al punto da gettare una luce indecifrabile sulla reale natura dei rapporti tra individui e soprattutto di una relazione di coppia.  Taeko ha o crede di avere certezze e punti di riferimento infallibili riguardo ai possibili risvolti delle sue scelte, e una piccola rete di relazioni superficiali da cui inspiegabilmente - nonostante una sottile insoddisfazione serpeggi costantemente in questi appuntamenti programmati "tra donne" - si sente sostenuta. Prende a frequentare un locale gay insieme alle sue amiche, e di lì a poco, attratta da un giovane e prestante barista del locale,  riesce ad ottenere un appuntamento con lui nonostante la quantomai dubbia reputazione del giovane, la differenza di età e di estrazione sociale e l'inequivocabile dato di fatto che li colloca in universi distanti tra loro anni luce. Fin dal principio Senkichi si trincera dietro una maschera di imperturbabile mistero, una cortina di non detto che alterna a pose dal candore infantile. Mishima traccia con maestria la rotta di Taeko attraverso un’altalena di fascinazione e paura nella spirale di una passione carnale che la getta nel caos, la spinge in un groviglio di decisioni sbagliate che prenderà una dopo l’altra nel tentativo di imbrigliare il controllo che Senkichi esercita su di lei grazie al potere che sa di incarnare in qualità di oggetto del desiderio. Desiderio e potere che egli sapientemente protegge e amplifica ricoprendo i suoi spostamenti e le sue frequentazioni di una coltre di segretezza, condizione che impone a Taeko al primo tentativo di lei di normalizzare la relazione

Interessante scoprire che uno dei nodi centrali del romanzo è l'idea che quanto più la vicenda è governata dalla carne tanto più si rivela come un'astrazione, un delirio proprio della mente. L'assenza di dettagli scabrosi o descrizioni di sesso esplicite fa emergere forse con maggiore forza questo concetto, che Mishima esprime attraverso le parole della stessa Taeko: 

"La nostra relazione, adesso, è terribilmente astratta".

Per inquadrare meglio i contenuti di questo romanzo e conoscere un pò anche l'autore, segnalo il saggio di Marguerite Yourcenar, Mishima o la visione del vuoto, che fornisce ulteriori spunti di riflessione illustrando le tematiche proprie di questo scrittore e le connessioni con la sua interessante biografia.

Segnalo infine la bella recensione de La scuola della carne su Strani giorni, ancora una volta fonte di ispirazione e grazie alla quale sono felicemente venuta a conoscenza di questo libro e del suo autore.



19 settembre 2015

Il nostro piccolo sole



“Il nostro piccolo sole” è il resoconto di un’esperienza reale. L’autrice ha messo nero su bianco la storia della nascita precoce di suo figlio Edoardo e di tutto ciò che ha significato per lei e per i suoi familiari.
Essendo a conoscenza delle vicende che hanno portato alla scrittura del libro e avendone se pur in minima parte condiviso le attese e le preoccupazioni, ho affrontato la lettura di questo libro in una disposizione di spirito molto diversa dal solito. Trovandomi in un certo senso su un terreno completamente nuovo avrei dovuto fare a meno dei consueti riferimenti nell'interpretazione di questo testo. Pensavo soprattutto a come avrei dovuto pormi di fronte alla testimonianza di fatti e situazioni di natura tanto intima, pur essendo anche la storia di tante altre persone che possono aver vissuto esperienze simili. Pensavo a come sarebbe stato differente rispetto alla lettura di un’opera letteraria di finzione.  Il racconto, il romanzo – in cui ogni dettaglio per quanto inventato è il più cocciutamente autobiografico  – plasma però l’autobiografia, trasfigura memorie ed esperienze che hanno dato origine all'opera letteraria, sublima traumi e passioni finché tutto,  persino quando volutamente eccessivo,  risulta accettabile e iconico, fosse anche la più profonda disperazione o il terrore.  
Questo però – ne ero ben consapevole -  sarebbe stato un viaggio del tutto diverso.
Il titolo non deve trarre in inganno. E’ chiaro fin dalle prime pagine che non ci sarà consolazione o sollievo per chi ne cercasse, o altro che potrebbe far pensare all'idealizzazione di un’esperienza: né le aspettative e le sensazioni legate al concetto di “maternità” nel senso più ingombrante del termine, né la scelta dei pochi essenziali dettagli da inserire nella storia, né il modo di raccontarli, un modo che si potrebbe definire minimalista anche se è evidente che si tratta di un flusso che scorre spontaneo  e senza sforzo, e che l’autrice non intende scimmiottare stili o sottostare ad alcun dettame modaiolo. Si tratta dunque di una cronaca lucidissima, ed è bella perché senza ombre, anche nel resoconto spietato delle proprie asprezze ed egoismi, di persona che procedendo come un navigante disperso in una fitta nebbia, senza alcun punto di riferimento, smarrita e sfinita ma sorretta da una forza misteriosa che la guida ora dopo ora nel superare i giorni e le attese, è ben consapevole di essere una controfigura di sé, un alter ego più freddo e meccanico, che osserva come in un lontano ricordo la sua versione più serenamente umana ma più indifesa; una sé stessa che in nessun modo sarebbe in grado di affrontare tante impensabili prove.
C’è un lavoro profondo nel tratteggiare la psicologia degli attori di questa vicenda, un lavoro tagliente e preciso che l’autrice svolge meticolosamente su sé stessa , senza mai isolarsi veramente dal mondo che la circonda, dalle persone e dai luoghi che registra e fotografa con chiarezza estrema anche nei momenti più difficili in cui sembra sentirsene lontanissima. E questo mondo infatti viene fuori, un universo che viaggia su un binario parallelo a quello della quotidiana normalità e che è tanto difficile condividere con chi questo universo non conosce; come spiegare, quali parole usare per descrivere la violenza di una guerra che scuote le fondamenta stesse dell’esistenza? Un universo  i cui protagonisti sono i piccoli appena nati e già in lotta per la loro vita, e poi “gli altri” genitori, i professori , il personale medico – figure che a volte sembrano rappresentare un possibile alleato altre volte uno specchio in cui non ci si vuole riconoscere, altre volte ancora una minaccia per il barlume di salute mentale che si vorrebbe poter preservare;  infine le macchine, che con i loro sibili, i ronzii e i tremendi allarmi  invadono le stanze della terapia intensiva e le menti di madri e padri, esseri che in quella strana penombra si aggirano in cerca di un sostegno per non crollare e che da esse dipendono per poter tornare a formulare l’idea stessa di futuro.  E’ proprio il concetto di tempo più di ogni altro ad essere travolto in queste pagine, il tempo che non passa, o che trascorre scandito da luci e suoni che seminano angoscia e terrore. La ferocia dell’incomunicabilità emerge in numerosi cupi passaggi, a cui fanno da contraltare piccoli gesti luminosi di silenziosa pacificante complicità.
Mi piace considerare questo libro non solo come la testimonianza della storia complicata di Edoardo raccontata da sua madre, o come esempio di un uso terapeutico della scrittura, ma come un vero e proprio testo letterario.

E’ accaduto che una donna, raccontando così bene una storia, la sua storia, si è rivelata scrittrice.

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17 settembre 2015

Fame

Vorrei poter capire in quale modo tutta questa spazzatura potrebbe mai liberarci. E perché mai ciò che si insegue è la bellezza ben sapendo che buona parte del suo potere abita nell’oscurità e in ciò che intorbidisce lo spirito. Cerchiamo una consolazione che ci affama.  E il rimedio da cui di volta in volta ci lasciamo illudere non potrà mai soddisfare un bisogno che esige ben altro che una pallida facciata.