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12 settembre 2016

L'acqua



























David Foster Wallace (Ithaca, 21 febbraio 1962-12 settembre 2008 -> ∞)

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Quasi tutti gli scrittori che conosco sono molto concentrati su se stessi, non nel senso che si pavoneggiano davanti allo specchio, ma che hanno una tendenza non solo verso l’introspezione, ma verso una tremenda forma di autoconsapevolezza.

Perciò negli ultimi due anni ho investito una parte molto maggiore della mia energia a insegnare, cioè di fatto esercitandomi a vivere da essere umano.

Si va lì per incontrare autori che sulla carta sono semplicemente straordinari, e di persona sono del tutto disadattati.

pensieri riguardo all’effetto desiderato non sono mai puri, mai privi di fini egoistici. Però ci sono parecchi libri che dopo averli letti mi hanno lasciato per sempre diverso da com’ero prima, e penso che tutta la buona letteratura in qualche modo affronti il problema della solitudine e agisca come suo lenitivo. Siamo tutti tremendamente, tremendamente soli. Ma c’è qualcosa, quantomeno nei romanzi e nei racconti, che ti permette di entrare in intimità con il mondo, e con un’altra mente, e con certi personaggi, in un modo in cui non puoi proprio farlo nel mondo reale. Io non so cosa stai pensando.

perché le varie sensazioni che proviamo possano poi riverberarsi anche nel mondo reale.

Mi sa che a volte quando scrivo, se cerco di essere particolarmente offensivo, scandaloso e via dicendo, in realtà ho solo il desiderio vorace di provocare un qualche tipo di effetto.

se hai un po’ di tecnica, puoi assicurarti che il lettore non resti indifferente.

In passato il compito della letteratura era rendere familiare ciò che era strano, portarti in un posto e fartelo apparire familiare. Ma mi sembra che una caratteristica della vita di oggi sia che tutto si presenta come familiare, quindi una delle cose che l’artista deve fare è prendere molta di questa familiarità e ricordare alla gente che è strana.

Ovviamente, non è che tutto questo processo lo fai in maniera consapevole mentre scrivi.

Ma trovo che gli scrittori più giovani abbiano il dovere di darsi una spiegazione più articolata del motivo per cui la tv è diventata una forza così dominante nella coscienza della gente, anche solo per il fatto che noi sotto i quarant’anni abbiamo fatto parte per tutta la nostra vita cosciente del pubblico televisivo.

Dato che una parte ineluttabile dell’essere umano è la sofferenza, ciò che noi esseri umani cerchiamo nell’arte è anche un’esperienza di sofferenza: che sarà necessariamente un’esperienza mediata, o per meglio dire una generalizzazione della sofferenza.

Mentre l’arte «alta», quella che non punta principalmente a farti sborsare dei soldi, è più probabile che ti causi malessere, o che ti costringa a faticare per arrivare ai suoi piaceri, proprio come nella vita reale il vero piacere è in genere un derivato della fatica e del disagio.

Perciò è difficile per il pubblico dell’arte, specialmente quello più giovane, che è stato educato ad aspettarsi che l’arte susciti piacere al cento per cento, e senza nessuno sforzo, leggere e apprezzare la letteratura alta. E questo è un male. Il problema non è che i lettori di oggi sono stupidi, non penso che sia così. È solo che la tv e la cultura commerciale di massa li hanno addestrati a essere piuttosto pigri e infantili nelle loro aspettative. E questo rende più difficile che mai cercare di coinvolgere i lettori di oggi, sia a livello intellettuale che di immaginario.

liberarsi dal dolore senza affrontare la causa profonda sarebbe come spegnere il campanello d’allarme mentre l’incendio divampa ancora.

Ma voglio solo dire che dare la colpa alla tv è un atteggiamento miope. La tv è solo un sintomo come tanti altri. Non è stata la tv a inventare il nostro infantilismo

Sarei patetico se dessi la colpa dei miei difetti a qualcosa di esterno, ma mi sembra comunque che tutti e due questi problemi si possano ricondurre all’esperienza schizogenica che ho vissuto da ragazzino, quando da una parte avevo la passione dei libri e leggevo un sacco, e dall’altra guardavo quantità mostruose di tv.

Mi sorprendo a inventare battute o a tentare esercizi di acrobazia formale e mi accorgo che niente di tutto ciò è davvero al servizio della storia in sé; serve allo scopo ben più sinistro di comunicare al lettore: «Ehi! Guardami! Dai un’occhiata e guarda che bravo scrittore che sono! Voglio piacerti!» Ora, in un certo senso non c’è modo di sfuggire del tutto a questa dinamica,


Può diventare un continuo tentativo di farsi apprezzare e ammirare dal lettore, invece che un tentativo di creazione artistica.

ma abbiamo davvero bisogno di una letteratura che non faccia altro che mettere in scena il buio e la stupidità del tutto? Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra piuttosto che sia la capacità di individuare e rivitalizzare gli elementi di umanità e di magia che ancora vivono e risplendono nonostante l’oscurità dei tempi.

Non sto parlando di soluzioni basate sull’intervento politico o sociale in senso tradizionale. La letteratura non si occupa di questo. La letteratura si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano.

la rottura delle regole dev’essere fatta in nome di qualcosa.

Lo shock smette di essere un effetto collaterale del progresso e diventa fine a se stesso. Ed è una cazzata.

che ovviamente a sua volta deriva dall’assioma dell’arte commerciale secondo cui è l’impatto sul pubblico a determinare il valore dell’arte.

Solo che dopo i pionieri vengono sempre i giramanovella, gli omini grigi che prendono i macchinari creati da altri e girano semplicemente la manovella, così che dall’altro lato escano piccole pallette di metafiction.

preda a una smania insaziabile di apparente novità: «Cosa posso fare che non sia stato già fatto?»

artisticamente parlando sei morto.

È da te stesso che devi estraniarti, in realtà, per lavorare come si deve.

la nostra paura sia delle relazioni che della solitudine – due sottoinsiemi della paura di essere intrappolati in un’individualità (a livello psichico, non solo fisico)

Permette la fruizione passiva. La incoraggia.

ma perché quella forma di Realismo ormai è stata assorbita e corrotta dall’intrattenimento commerciale.

Penso di aver avuto una specie di crisi di mezza età già a vent’anni, il che probabilmente non depone molto a favore della mia longevità.

l’antitesi netta fra letteratura realistica e letteratura non realistica è solo una distinzione convenzionale, creata da gente che ha interesse a preservare la tradizione del Realismo con la R maiuscola. Un modo per emarginare tutto ciò che non è consolatorio e conservatore. Anche l’intento degli avanguardisti più ingenui, se ha dentro un po’ di integrità, non è mai: «Buttiamo a mare tutto il realismo», ma piuttosto: «Cerchiamo di prendere in considerazione e rappresentare aspetti dell’esperienza reale che in precedenza sono stati esclusi dall’arte».

mostrare quello che c’è sotto

Be’, per il lettore di oggi questa funzione di presentazione della letteratura si è rovesciata: dato che l’intero villaggio globale adesso ci viene presentato come familiare, come immediatamente accessibile per via elettronica – i satelliti, le microonde, gli intrepidi antropologi dei documentari della PBS, le coriste zulù di Paul Simon – è quasi come se avessimo bisogno che gli scrittori ripristinino l’ineluttabile stranezza delle cose strane, che defamiliarizzino il tutto

Ma la vita del lettore «al di fuori» della storia cambia la storia. Si potrebbe dire che influisce soltanto «sulla sua reazione alla storia» o «sulla sua interpretazione della storia». Ma queste cose sono la storia.

una volta che ho finito di scrivere, di base sono morto, e probabilmente è morto anche il testo: diventa puro e semplice linguaggio, e il linguaggio non vive soltanto nel lettore ma attraverso il lettore.

E forse l’unico vero valore di «Verso Occidente» sarà mostrare in che spirali di pretenziosità si va a cadere se si cazzeggia troppo con la ricorsività.

Devi considerare La scopa del sistema come la storia emotivamente delicata di un giovane WASP emotivamente delicato che ha appena vissuto una crisi di mezza età in seguito alla quale è passato dalla fredda e cerebrale analisi matematica a una visione altrettanto fredda e cerebrale della teoria letteraria di Austin-Wittgenstein-Derrida, il che ha anche trasformato la sua angoscia esistenziale dalla paura di essere solo una calcolatrice ambulante alla paura di essere un semplice costrutto linguistico.

Probabilmente è un buon esempio di come e perché gli autori spesso non capiscano un accidenti di quello che scrivono loro stessi.

che modo assurdo di riuscire nei propri intenti. Sono un esibizionista che vuole nascondersi, ma che fallisce nel nascondersi; e così, in qualche modo, ottengo il mio scopo.

Uno dei motivi per cui considero Wittgenstein un vero artista è che si è reso conto che nessuna conclusione potrebbe essere peggiore del solipsismo.

perché siamo bloccati qui, dentro il linguaggio, anche se almeno ci stiamo tutti insieme.

Io ci sono dentro. Noi siamo dentro il linguaggio. Wittgenstein non è Heidegger, non dice che noi siamo il linguaggio, ma dice che ci siamo comunque dentro, ineluttabilmente, proprio come siamo dentro lo spazio-tempo per Kant.

Il fondatore di un movimento non fa mai parte del movimento.

Non sembra che ogni parola, ogni riga e ogni stesura gli sia costata sangue. [Carver] Anche in questo sta la sua genialità. Dà l’idea che si possa scrivere un racconto minimalista senza sputarci sangue. E in effetti si può. Ma non sarà un buon racconto.

Ma nel rap ci sono delle contraddizioni che sembrano mostrare in modo perverso che, in un’epoca in cui la stessa ribellione è una merce usata per vendere altre merci, l’idea stessa di ribellarsi contro la cultura capitalistica dei bianchi non è solo impossibile ma incoerente.

Astenersi da ogni riferimento alla cultura pop vorrebbe dire o essere retrogradi nella propria idea di ciò che è «permesso» alla vera arte, oppure parlare di un altro mondo, diverso da questo.

Tutta l’attenzione e l’impegno e lo sforzo che come scrittore richiedi al lettore non possono andare a tuo vantaggio, devono andare a suo vantaggio.

ha a che fare con la qualità della scrittura ma non tanto con il puro e semplice talento.

Abbiamo visto che ormai si possono infrangere tutte o quasi le regole senza essere ridicolizzati e cacciati via a calci, ma abbiamo anche visto a quale tossicità può portare l’anarchia fine a se stessa.

E c’è qualcosa, nel capriccio assoluto e nel flusso disordinato, che invece smorza l’efficacia della scrittura.

La cosa strana è che vedo questi due fronti farsi la guerra quando in realtà hanno un’origine comune, che è il disprezzo per il lettore:

Credo che sia il miglior momento possibile per stare al mondo e forse il miglior momento per fare lo scrittore. Certo, dubito che sia il più facile.

È qualcosa di incredibilmente difficile, sconcertante e spaventoso, ma è un bel compito.

C’è della narrativa commerciale che è perfettamente in grado di riuscirci; una trama avvincente è perfettamente in grado di riuscirci: ma non mi fa sentire meno solo.

Sono brevi flash, fiammate, ma ogni tanto mi capitano. E non mi sento più solo, a livello intellettuale, emotivo, spirituale.

Philip Larkin, e anche Louise Glück, Auden

l’orazione funebre di Socrate, la poesia di John Donne, la poesia di Richard Crashaw, Shakespeare ogni tanto, ma non molto spesso, le opere più brevi di Keats, Schopenhauer, le Meditazioni sulla filosofia prima e il Discorso sul metodo di Cartesio, i Prolegomeni di Kant, anche se le traduzioni in inglese sono tutte pessime, Le varie forme dell’esperienza religiosa di William James, il Tractatus di Wittgenstein, Ritratto dell’artista da giovane di Joyce, Hemingway – specialmente gli intermezzi in corsivo di In Our Time, che ti fanno proprio fare wow! – Flannery O’Connor, Cormac McCarthy, Don DeLillo, A.S. Byatt, Cynthia Ozick – i racconti, specialmente uno che si intitola «Levitation» – Pynchon più o meno il venticinque per cento delle volte, Donald Barthelme – in particolare un racconto chiamato «Il pallone», che è stato il primo racconto a farmi venire voglia di diventare scrittore – Tobias Wolff, le cose migliori di Raymond Carver, quelle più famose. Steinbeck quando non rulla troppo i tamburi, il trentacinque per cento di Stephen Crane, Moby Dick, Il grande Gatsby.

dell’idea che la dedizione a un obiettivo è in qualche modo simile alla dipendenza da una sostanza.

Meno mi guardano, più posso guardare io, e più ci guadagniamo io e il mio lavoro
Se la gente vuole davvero sapere cosa ho mangiato per pranzo, va bene. Ma è una cosa un po’ tossica.

Quasi tutti gli scrittori che conosco sono strani ibridi. C’è una forte vena di egomania accoppiata con una timidezza estrema. Scrivere è una specie di esibizionismo privato. E c’è pure una strana solitudine, e il desiderio di avere un qualche dialogo con la gente, ma senza la capacità vera di farlo di persona.

Uno scrive quello che scrive, e solo a posteriori inventa il motivo per cui l’ha scritto, quindi c’è un elemento di falsità in ogni spiegazione

In superficie può sembrare che la storia si fermi e basta. Ma nelle mie intenzioni si ferma e poi resta lì ad aleggiare, come un ronzio e una proiezione. Musicalmente ed emotivamente mi è parso giusto come tono.

C’è qualcosa di dannoso nel gratificare ogni nostro singolo desiderio?

L’ironia e la ridicolizzazione sono le cause di un grande senso di disperazione e di stasi nella cultura americana, e l’ironia, che un tempo era l’arma dei ribelli, è stata cooptata e depotenziata dalla cultura di massa.
L’ironia ci tiranneggia. Tutta l’ironia negli Stati Uniti è basata su un implicito “non sto dicendo sul serio”».

All’epoca, in mano a scrittori come Ken Kesey l’ironia era una reazione appropriata a un mondo da telefilm buonista di cui andava smascherata l’ipocrisia. Ma oggi l’ironia nasconde soltanto il terrore di apparire sentimentali, melodrammatici o manipolatori in quei modi antiquati, fingendo al tempo stesso che l’ironia non sia anch’essa uno strumento di manipolazione.

Non c’è niente di male, è una trovata simpatica, da giovane, ed è la lingua che parliamo tutti. Eppure trovo anche terrificante il fatto che i miei studenti non si rendano minimamente conto di quanto siano schiavizzati dalla civiltà consumistica. Sono talmente schiavizzati che non se ne accorgono neanche. È come vivere sotto il fascismo e credere di essere in democrazia.

sul serio: che tipo di libro può pubblicare uno scrittore dopo un romanzo come Infinite Jest? Wallace dà la risposta più concisa di tutta la giornata: «È una cosa di cui non sono assolutamente in grado di parlare», dice.

Credo che invece sia meglio provare a far notare cose che tutti già hanno notato, ma che non hanno notato davvero di aver notato. Come peraltro fanno anche molti comici bravi.

meglio, John McPhee è all’altezza. Non so che influenza possano aver avuto, ma se dobbiamo parlare di quelli di cui sono un fan accanito... direi il primo libro di Frank Conroy, Un vero bugiardo di Tobias Wolff. Oddio, c’è pure il libro di un matematico di Oxford, tale Hardy, Apologia di un matematico. Hardy viene pure citato in Will Hunting – Genio ribelle, peraltro. Ma direi che la migliore è Pauline Kael. Anche Annie Dillard è bravissima, ma è una che si contiene molto di più.

Devi capire che scrivere un romanzo può essere molto strano, tipo avere un amico invisibile da bambini; poi lo ammazzi, anche se non è mai stato veramente vivo tranne che nella tua immaginazione, e devi rimetterti a fare la spesa e a parlare con la gente alle feste. I personaggi dei racconti sono diversi. Li vedi prendere vita solo con la coda dell’occhio. Non ci devi vivere insieme giorno dopo giorno.

la verbosità è parte integrante di una potente visione del mondo: le nuove realtà della hype mediatica e del sovraccarico di informazione non hanno certo reso la gente più felice.

Sai, mi piace la chiesa e mi piace far parte di qualcosa di più grande di me. Ma credo non sia destino che io riesca a far parte di una religione istituzionalizzata, perché non è nella mia natura accettare certe cose solo per fede.

L’America è un grosso esperimento su cosa succede se sei una società ricca e privilegiata che ha smesso quasi totalmente di essere pervasa a fondo dalla religione o dalla spiritualità. Se ne sente ancora la presenza a livello verbale: fanno parte dell’etichetta dei nostri leader, ma non sono più dentro di noi, il che per un verso ci rende molto liberali e moderati, non siamo fanatici e tendiamo a non andare in giro a far saltare in aria le cose. Ma per un altro, è molto difficile pensare che lo scopo della vita sia raddoppiare lo stipendio per poter andare più spesso al centro commerciale. Anche quando prendi in giro certe abitudini e te la ridacchi, capisci che dietro c’è proprio un vuoto oscuro.

Bisogna mettersi in testa che tutto questo ci impiegherà un attimo a entrare e uscire dal cervello della gente, a parte il mio e il tuo.

La compressione non è mai stata il mio forte.

Sono quelli sulla metropolitana il cui sguardo indifferente ha qualcosa dentro che in un certo senso mette i brividi. Qualcosa di rapace. Questo è perché gli scrittori si nutrono delle situazioni della vita. Gli scrittori guardano gli altri esseri umani un po’ come gli automobilisti che rallentano e restano a bocca aperta se vedono un incidente stradale: ci tengono molto a una concezione di se stessi come testimoni.

Don DeLillo, Cynthia Ozick e Cormac McCarthy, tutti tra i cinquanta e i sessanta. Tra i miei coetanei amo molto, fra gli altri, George Saunders, che pubblica spesso sul New Yorker, e Richard Powers – per il modo incredibile in cui sa combinare e trasfigurare dati – Joanna Scott [che, gli ricordo, vive dalle sue parti, a Rochester], Denis Johnson, anche se più le sue poesie dell’inizio che i suoi lavori recenti di cui ora si parla tanto. A San Francisco c’è William T. Vollmann, che è molto prolifico. C’è un suo libro, I racconti dell’arcobaleno, che ti fa rizzare i peli su parti del corpo su cui non hai peli.

La narrativa è fatta per essere letta interiormente, per marciare al passo dei circuiti mentali delle persone, e la voce che sentiamo nella nostra testa è molto diversa dal suono della nostra laringe.

Quando va tutto bene, alla fine ti senti stanco in un modo molto bello. Ecco, provi una stanchezza davvero molto bella.

Probabilmente tutti i lavori sono uguali e sono tutti pieni di una noia terribile, di disperazione e di cauti frammenti di soddisfazione di cui però è molto difficile parlare con qualcuno. Ma la mia è solo un’ipotesi.

ovviamente il realismo è un’illusione di realismo e l’idea che alcuni piccoli dettagli banali siano per qualche ragione più reali e autentici dei dettagli strambi o fuori norma mi è sempre sembrata un po’ rozza.

ma io non so davvero che tipo di scrittore sono, e credo che lo stesso valga per quasi tutti i miei colleghi. Cerchi solo di scrivere cose che a te sembrino vive.

molto di quello che per convenzione definiamo, tra virgolette, Realistico ai miei occhi è fasullo. I finali mi sembrano sempre artificiali e mi sembra sempre tutto un po’ troppo facile e banale, e che lo scopo ultimo di tutta la faccenda sia quello di vendermi qualcosa. Credo ci sia una parte di me che rifugge da tutto questo, ed è un bel problema perché ci sono esempi di letteratura realistica davvero viva e pressante. Però, sia il modello sia la forma sono stati sfruttati in modo talmente estenuante per ragioni commerciali che molti della nostra età penso cerchino qualcosa di diverso, forme meno commerciali all’interno delle quali sia possibile parlare di cose urgenti e toccanti.

perché a un certo punto hanno capito che anche se gli spettatori sghignazzano e lo trovano di cattivo gusto, comunque restano a guardare, e che il segreto è fare in modo che guardino, è quella la cosa remunerativa. Insomma... una volta superato il limite della vergogna, chi può dire dove ti fermi.

quindi forse è vero che non c’è niente che stia al di fuori della mente. E se non c’è niente al di fuori della mente, questo stesso non esserci non sembra così importante. Ma diventa subito importante appena ci mettiamo a discuterne. Perciò il linguaggio, e il modo in cui comunichiamo tra noi e organizziamo il mondo con le parole, credo sia un po’ il perno su cui gira tutto questo discorso, anche se non lo capisco bene fino in fondo. Perciò temo che la mia risposta si perda un po’ nel nulla.

Perché ovviamente vuoi che la tua arte sia brillante e che sembri figa, vuoi che alla gente piaccia, ma gran parte di quel che passa per brillante e figo adesso è anche molto, molto commerciale.

Una volta che il libro è in bozze e io sto qui a farne l’analisi critica, diventa tutto molto artificiale. Potrei aver detto una cosa giusta, ma è tutto molto diverso rispetto a quello che succede veramente mentre stai scrivendo. Quello che ho in testa mentre scrivo è molto meno sofisticato di tutte queste parole.

Il paradosso principale, che poi è quello che viene affrontato più agevolmente con la logica matematica, sta nel fatto che è molto, molto difficile parlare di un linguaggio all’interno di quello stesso linguaggio.

L’idea che tutto sia tendenzioso, che non esista una verità, che si possa ricavare una verità sui fatti del giorno da Fox News e un’altra completamente diversa dal grande complotto liberal capeggiato dal New York Times e dalla CNN, tutto questo, io credo, è sia liberatorio ed esaltante, sia molto spaventoso.

Le grosse somme di denaro e la celebrità deformano gli artisti e deformano l’arte

Per gli artisti e gli scrittori che fanno sul serio, tuttavia, credo che l’indifferenza e il disinteresse del resto della popolazione siano fondamentalmente un bene – un bene per l’arte, voglio dire.

personalmente, però, trovo maggior piacere e valore nelle opere e nelle idee di autori come Swift, Montaigne, Lamb, Orwell, Baldwin, Dillard e Ozick che in quelle di Hunter Thompson o di Tom Wolfe.

La capacità di scrittori come San Paolo, Rousseau, Dostoevskij e Camus di rappresentare in modo tanto pieno e sentito le sollecitazioni spirituali che sentivano, anzi, che vedevano come realtà, non smette di ispirarmi un timore reverenziale prossimo alla disperazione. Non so che farei per essere uno di loro! Ma in questo caso direi che le cose che invidio e che desidero sono essenzialmente le qualità umane – le capacità spirituali – più che le abilità tecniche o i talenti specifici.

«Forse è quella che nei tempi antichi veniva chiamata crisi spirituale», mi ha detto. «Si tratta semplicemente di avere la sensazione che ogni assioma della tua vita si sia rivelato falso, e che di fatto non ci sia nulla, e che tu non sia nulla, e che tutto sia un’illusione. E ti senti migliore di tutti gli altri perché ti sei reso conto che è un’illusione, eppure stai peggio, perché non riesci a funzionare».

«Penso che essere timidi significhi sostanzialmente essere talmente concentrati su se stessi che diventa difficile stare in compagnia della gente. Per esempio, se passo del tempo con te, non riesco neanche a capire se mi stai simpatico o antipatico, perché sono troppo occupato a chiedermi se io sto simpatico a te».

Penso di essere molto onesto e sincero, ma sono anche orgoglioso di quanto sono onesto e sincero: e quindi in che posizione sono?


Sophie crede di avere ormai capito alla sua età che la magia altro non è se non il semplice rapporto tra una persona e le altre persone che la circondano.

Lo scintillio grigio del ghiaccio su un croccante prato marzolino, altro ghiaccio bagnato che cade da un cielo incolore.

Che la malattia è una cosa che hai, non una cosa che sei.

Ecco pressappoco cos’è in sostanza la Cosa Brutta. Tutto in voi è nauseato e paradossale.

filtrato da questa brutta nausea e diventa brutto. E tutto diventa brutto in voi, tutto il bello esce dal mondo come l’aria esce da un pallone rotto.

Perché la Cosa Brutta attacca non solo te facendoti sentire male e mettendoti fuori uso, ma attacca in special modo, fa sentire male e mette fuori uso proprio le cose che ti servono a combattere la Cosa Brutta, a sentirti magari meglio, a restare vivo.

È cosí che funziona la Cosa Brutta: è particolarmente brava ad aggredire i vostri meccanismi difensivi.

la Cosa Brutta riesce a farvi questo perché voi siete la Cosa Brutta! La Cosa Brutta siete voi. Nient’altro: nessuna infezione batteriologica né colpi di spranga o di martello in testa quando eravate piccoli, né scuse d’altro genere; voi siete la malattia. La malattia vi «definisce», specie dopo che è passato qualche tempo.

È in quel preciso istante che la Cosa Brutta vi divora, o meglio, che voi divorate voi stessi. Che vi uccidete.

l’aspetto insidioso di queste forme di venerazione non è che sono malvagie o peccaminose, è che sono inconsapevoli. Sono modalità predefinite. Sono il genere di venerazione in cui scivolate per gradi, giorno dopo giorno, diventando sempre piú selettivi su quello che vedete e sul metro che usate per giudicare senza rendervi nemmeno bene conto di farlo. E il cosiddetto «mondo reale» non vi dissuaderà dall’operare in modalità predefinita, perché il cosiddetto «mondo reale» degli uomini, del denaro e del potere vi accompagna con quel suo piacevole ronzio alimentato dalla paura, dal disprezzo, dalla frustrazione, dalla brama e dalla venerazione dell’io. La cultura odierna ha imbrigliato queste forze in modi che hanno prodotto ricchezza, comodità e libertà personale a iosa. La libertà di essere tutti sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio, soli al centro di tutto il creato.

La Verità con la V maiuscola riguarda la vita prima della morte. Riguarda il fatto di toccare i trenta, magari i cinquanta, senza il desiderio di spararsi un colpo in testa. Riguarda il valore vero della vera cultura, dove voti e titoli di studio non c’entrano, c’entra solo la consapevolezza pura e semplice: la consapevolezza di ciò che è cosí reale e essenziale, cosí nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti da costringerci a ricordare di continuo a noi stessi: «Questa è l’acqua, questa è l’acqua; dietro questi eschimesi c’è molto piú di quello che sembra». Farlo, vivere in modo consapevole, adulto, giorno dopo giorno, è di una difficoltà inimmaginabile. E questo dimostra la verità di un altro cliché: la vostra cultura è realmente il lavoro di una vita, e comincia... adesso. Augurarvi buona fortuna sarebbe troppo poco.

Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?

il supermercato è orribile, illuminato al neon e pervaso da quelle musichette e canzoncine capaci solo di abbrutire, e voi dareste qualsiasi cosa per non essere lí, ma non potete limitarvi a entrare e uscire; vi tocca girare tutti i reparti enormi, iperilluminati e caotici per trovare quello che vi serve, manovrare il carrello scassato in mezzo a tutte le altre persone stanche e trafelate col carrello, e ovviamente ci sono i vecchi di una lentezza glaciale, gli strafatti e i bambini iperattivi che bloccano la corsia e a voi tocca stringere i denti e sforzarvi di chiedere permesso in tono gentile ma poi, quando finalmente avete tutto l’occorrente per la cena, scoprite che non ci sono abbastanza casse aperte anche se è l’ora di punta, e dovete fare una fila chilometrica, il che è assurdo e vi manda in bestia, ma non potete prendervela con la cassiera isterica, oberata com’è quotidianamente da un lavoro cosí noioso e insensato che tutti noi qui riuniti in questa prestigiosa università nemmeno ce lo immaginiamo... fatto sta che finalmente arriva il vostro turno alla cassa, pagate il vostro cibo, aspettate che una macchinetta autentichi il vostro assegno o la vostra carta di credito e vi sentite augurare «buona giornata» con una voce che è esattamente la voce della morte, dopodiché mettete quelle raccapriccianti buste di plastica sottilissima nell’esasperante carrello dalla ruota impazzita che tira a sinistra, attraversate tutto il parcheggio intasato, pieno di buche e di rifiuti, e cercate di caricare la spesa in macchina in modo che non esca dalle buste rotolando per tutto il bagagliaio lungo il tragitto, in mezzo al traffico lento, congestionato, strapieno di Suv dell’ora di punta, eccetera, eccetera.

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DON DE LILLO 3 novembre 2008.
L’infinito. Questo l’argomento del libro di David Foster Wallace sulla matematica, la filosofia e la storia di un concetto vasto, bellissimo, astratto. Nel libro ci sono riferimenti alla dicotomia di Zenone e alla congettura di Goldbach, al principio di massimalità di Hausdorff. A fare da arioso contrappunto c’è il canto piano di Dave: Allora OK e una cosa tipo e non scherzo e roba del genere. La sua opera tende ovunque a conciliare ciò che è difficile e consequenziale con un fraseggio che è giovanile, spontaneo e spesso spiritoso, contrassegnato qua e là da qualche piccola curiosa intromissione dal gergo di strada. «La sua fotografia ha un sapore amaro per me». «Un imbarazzo quasi talmudico». «Il piccolissimo buco della serratura di se stesso». Persiste una vitalità, un vigore sbigottito di fronte alla complessa umanità che troviamo nella sua narrativa, alla perdita e all’inquietudine, all’offuscarsi della mente, alla mancanza di fiducia in se stessi. Ci sono frasi che sparano raggi di energia in sette direzioni. Ci sono racconti che seguono il tortuoso senso di isolamento di un personaggio. Tutto, e di piú. Questo il titolo del suo libro sull’infinito. Potrebbe essere anche la descrizione del romanzo Infinite Jest, una serissima beffa sulle forme di dipendenza dell’umanità. Possiamo immaginare i suoi testi narrativi e i suoi saggi come stralci di rotoli da un lontano futuro. L’opera la conosciamo già come notizia di prima mano: dallo scrittore al lettore, intimamente, ossessivamente. Lui non ha incanalato le sue doti entro schemi piú angusti. Voleva reggere l’urto della vasta, farneticante, ingovernabile onda della cultura contemporanea. Ora lo conosciamo come uno scrittore coraggioso in lotta contro la forza che voleva indurlo a rinunciare a se stesso. A distanza di anni sentiremo ancora il gelo che ha accompagnato la notizia della sua morte. Uno dei suoi racconti recenti si conclude con la perentorietà di questa mezza frase: Non una parola di piú. Ma c’è sempre una parola di piú. C’è sempre un lettore di piú a rigenerare quelle parole. Le parole non smetteranno di pervenirci. Giovinezza e perdita. Questa è la voce di David, americana. DON DE LILLO 3 novembre 2008.

(Sottolineature da Un antidoto contro la solitudineQuesta è l'acqua)