29 maggio 2014
Steve Hackett - la musica dei Genesis a Roma (22 maggio 2014)
Il progressive rock è fuori dal tempo. Ma non nel senso che avrei dato a questa espressione fino a giovedì scorso.
Si certo il progressive rock è una fase chiaramente circoscritta della storia musicale.
Ma tant'è, la stessa definizione di progressive e di rock non mi convincevano mentre vivevo incredula questo momento artistico.
Un susseguirsi di lunghe melodie, filastrocche, svolte improvvise, silenzi, mistero, il cantato e il parlato, tempi dispari, il dispiegarsi improvviso di suono puro verso le volte dell'Auditorium senza che fosse mai possibile rintracciare uno schema.
Un pò come quando le dita della mano destra di S.H. risalivano il manico della chitarra come se andassero a passeggio in un luogo che non aveva a che fare con la musica e con noi lì davanti.
Questo è il progressive, si dice.
Mi sembrava ancora più sorprendente quindi che nella penombra non ci fosse testa che non si muovesse a tempo, e che non sapesse esattamente cosa sarebbe accaduto un attimo dopo.
E' possibile che il successo di questa musica sia dovuto al porsi su un piano di pretenziosità, così sopra le righe da essere improbabile baluardo di un'unicità impossibile da ottenere diversamente?
O altrimenti come è stato possibile che una musica tanto concettuale, astratta perfino, che esibizioni in cui l'ironia spazza via gli stessi simboli di cui si serve, fossero così seguite negli anni '70 e che quella stessa
musica svestite le maschere e rivisitata appena dalla sensibilità personale dei musicisti attuali riesca ancora oggi a richiamare folle di attempate anime "perse in questa terra di mezzo"?
Fuori dal tempo, questa musica parla ancora.
Siamo lontani dalla vita reale, dal mondo fuori.
Tanto lontani che queste lunghe sinfonie progressive vibrano adesso come metafore dell'incomunicabilità delle paure e angosce più profonde, dell'inafferrabilità del tempo, dell'unicità del momento, del concetto stesso di arte che meglio interpreta ciò che più deforma, e che trasfigurando, incarna e svela.
(Anche per J.B.)
Si certo il progressive rock è una fase chiaramente circoscritta della storia musicale.
Ma tant'è, la stessa definizione di progressive e di rock non mi convincevano mentre vivevo incredula questo momento artistico.
Un susseguirsi di lunghe melodie, filastrocche, svolte improvvise, silenzi, mistero, il cantato e il parlato, tempi dispari, il dispiegarsi improvviso di suono puro verso le volte dell'Auditorium senza che fosse mai possibile rintracciare uno schema.
Un pò come quando le dita della mano destra di S.H. risalivano il manico della chitarra come se andassero a passeggio in un luogo che non aveva a che fare con la musica e con noi lì davanti.
Questo è il progressive, si dice.
Mi sembrava ancora più sorprendente quindi che nella penombra non ci fosse testa che non si muovesse a tempo, e che non sapesse esattamente cosa sarebbe accaduto un attimo dopo.
E' possibile che il successo di questa musica sia dovuto al porsi su un piano di pretenziosità, così sopra le righe da essere improbabile baluardo di un'unicità impossibile da ottenere diversamente?
O altrimenti come è stato possibile che una musica tanto concettuale, astratta perfino, che esibizioni in cui l'ironia spazza via gli stessi simboli di cui si serve, fossero così seguite negli anni '70 e che quella stessa
musica svestite le maschere e rivisitata appena dalla sensibilità personale dei musicisti attuali riesca ancora oggi a richiamare folle di attempate anime "perse in questa terra di mezzo"?
Fuori dal tempo, questa musica parla ancora.
Siamo lontani dalla vita reale, dal mondo fuori.
Tanto lontani che queste lunghe sinfonie progressive vibrano adesso come metafore dell'incomunicabilità delle paure e angosce più profonde, dell'inafferrabilità del tempo, dell'unicità del momento, del concetto stesso di arte che meglio interpreta ciò che più deforma, e che trasfigurando, incarna e svela.
(Anche per J.B.)
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