Si affermano
a metà degli anni ’80 (Such a Shame, 1984, It’s My Life, 1984)
La voce di
Mark Hollis è strana, nasale e stirata, dà l'impressione che sotto le ritmiche
elettroniche accattivanti vibrino corde di altra natura in cerca di una strada
per uscire allo scoperto.
Questo fa sì
che anche i brani da classifica risuonino come qualcosa di più astratto, di un'intenzione più profonda. I testi, piuttosto scarni, confermano questa
sensazione. Tra i vaghi afflati esistenziali trapela l'eterno dilemma dell'artista diviso tra
ricerca della fama e desiderio di esprimersi liberamente, dire quello che si vuole come si vuole.
In
'It's my Life' Mark Hollis scrive "Convinco me stesso (...) E' la mia vita
(...) Convinco me stesso (...) Perso tra la folla (...) E mi sono chiesto,
quanto impegno ci metti (...) Non dimenticare (...) Preso tra la folla (...) E'
la mia vita Non finisce mai"
La discografia conta cinque album in studio del gruppo
e un album di Mark Hollis da solista, oltre alle raccolte e agli album dal
vivo.
1982 The Party’s Over
1984 It’s My Life
1986 The Colour of Spring
1988 The Spirit of Eden
1991 The Laughing Stock
1998 Mark Hollis
The Colour of Spring arriva dopo soli quattro anni dai primi successi, ed è considerato un album di transizione verso una musicalità più intima e ricercata, e le cose si fanno interessanti.
Il testo di “I don’t believe in you” mi sembra emblematico,
e lo trascrivo per intero:
Ora il divertimento è finito
Now the fun is over
Dove iniziano le parole? Where do words begin?
Sto cercando di trovare la strada da percorrere I'm trying to find the path ahead
In qualunque modo tu lo dica Any way you say it
La farsa continua The charade goes on
Ma i tuoi occhi non lo vedranno But your eyes won't see it
E' la stessa vecchia canzone It's the same old song
Non ti credo I don't believe you
Non ti credo I don't believe you
Promesse così d'oro Promises so golden
Gli anni hanno dimostrato che si sbagliavano Years have proved them wrong
Sto cercando di lasciare un po' di rispetto per me
stesso I'm trying to leave some self-respect
In qualunque modo tu lo dica Any way you say it
Il nostro declino continua Our decline goes on
Ma il tuo orgoglio non ci darà ascolto But your pride won't heed it
E' la stessa vecchia canzone It's the same old song
Non ti credo I don't believe you
Non ti credo I don't believe you
Io no, non credo in te I don't, I don't believe in you
E il modo in cui lo giochi And the way you play it
È il modo in cui lo desideri Is the way you want
In qualunque modo lo canti Any way you sing it
E' la stessa vecchia canzone It's the same old song
Non ti credo I don't believe you
Non ti credo I don't believe you
Non ti credo I don't believe you
Non ti credo I don't believe you
The Spirit of Eden e The Laughing Stock proseguono su
questa strada perfezionandola, creando universi musicali più astratti e atmosfere più rarefatte. Nei testi si fa strada la spiritualità.
Nel 1998 arriva l'album solista di Mark Hollis, l'ultimo, in cui abitano sonorità jazz, melodie sospese, e
silenzi. La voce colora il tutto di tonalità calde, di una profondità senza peso.
Di seguito I don’t believe in you, da The Colour of Spring:
Inheritance, da The Spirit of Eden:
Mark Hollis si è eclissato dopo il suo primo e unico album solista, ritirandosi del tutto dalla scena musicale. Già dal 1986 aveva scelto di non esibirsi più dal vivo.
Muore nel 2019.
In una bella intervista per la televisione danese rilasciata nel 1998 dopo l'uscita del suo album da solista, Mark Hollis appare timido, sincero, disarmante.
Sul ruolo della voce ha ovviamente molto da dire (mi scuso per eventuali errori di traduzione).
M.H.: Devi trattare la voce come uno strumento, non deve dominare, deve inserirsi nel paesaggio insieme a tutto il resto - devi vederla da un punto di vista melodico, le inflessioni devono riverberare una luce simile. Pensa ad esempio ad un clarinetto, a certe note che devono avere un certo suono - e così quando scrivi un testo devi prendere un certo blocco e inserirlo anche da un punto di vista fonetico, affinché quando canti suoni in un certo modo. Quando scrivi il testo devi farlo in modo che quando canti risulti credibile. E così che lavoro, parto da questo assunto. Hai a disposizione un gran numero di parole con quel particolare suono, e questo rende le cose più difficili, ma è così che riesci ad ottienere il risultato. Il testo è molto molto importante, perché dal punto di vista del canto, per una buona performance, devi credere in ciò che canti, e per fare questo devi scrivere qualcosa che abbia potere quando lo usi.
Giornalista: Quindi non significa niente per te il fatto che io, come ascoltatore, possa non comprendere realmente il testo.
M.H.: No, è come se scrivessi le poesie di Stéphane Mallarmé, come se fossero poesie francesi, ed è lo stesso per me quando ascolto per la prima volta quel certo pezzo di musica, amo semplicemente la musica per ciò che è la musica, e il fatto che non posso capire il linguaggio è una considerazione assolutamente secondaria. Poi, poter trovare la traduzione è una specie di bonus. E' di importanza fondamentale nella performance, ma è leggermente secondario in termini di ascolto.
Giornalista: Il silenzio è importante per te, non c'è silenzio solo tra un brano e l'altro, c'è silenzio anche all'interno dei brani.
M.H.: Assolutamente. Prima di suonare due note, impara a suonare una sola nota. E' semplice, si tratta solo di questo. E non suonare nemmeno una nota, se non hai una ragione per farlo. Amo il silenzio, non ho alcun problema con il silenzio. E' soltanto silenzioso. E se stai per romperlo entrandoci dentro, cerca di avere una buona ragione per farlo.
Le ossessioni di Paul Auster avvinghiano lentamente. I suoi fantasmi sono parole e cose sempre troppo slegate o troppo legate a scarni significati, maschere, specchi, percorsi oscuri, gorghi mentali, vane strategie di ricerca di un'identità che gioca irrimediabilmente a rimpiattino, luoghi apparentemente familiari che diventano labirinti in cui smarrirsi prima di rendersi conto di aver percorso un solo passo. Palazzi, strade, vicoli, muri, finestre, porte, si chiudono in trappole mortali. L'immobilità si tramuta silenziosamente in una spirale senza uscita. Batte sempre il rintocco sordo e pesante della letteratura, l'ombra persecutoria ma anche irrinunciabile di poeti e scrittori, Milton, Melville in Città di vetro, Walt Whitman, Henry David Thoreau in Fantasmi. I protagonisti qui sono molte cose e nessuna, sono anche ombre di scrittori. La solitudine è così profonda da non rappresentare un ostacolo o una sofferenza, semplicemente i rapporti umani o familiari sono impossibili, crudeli o fallimentari. Non so ancora dove e attraverso quali ribaltamenti repentini di situazioni sul filo della follia si cercherà Auster ne La stanza chiusa. Di certo il titolo anticipa eloquentemente quanto dovrò attraversare ancora di claustrofobico.
"E poi più importante di tutto: ricordare chi sono. Ricordare chi dovrei essere. Non credo che questo sia un gioco. D'altra parte, non c'è niente di chiaro. Per esempio: tu chi sei? E se pensi di saperlo, perché continui a mentire? Non ho risposta. Non posso dire altro che questo: ascoltami. Mi chiamo Paul Auster. Non è il mio vero nome."
Paul Auster, Trilogia di New York, Città di vetro.