This is the end of every song that we sing The fire burned out to ash, and the stars grown dim with tears Cold and afraid, the ghosts of all that we've been We toast with bitter dregs, to our emptiness
And the birds falling out of our skies And the words falling out of our minds And here is to love, to all the love Falling out of our lives Hopes and dreams are gone The end of every song
And it all stops We were always sure that we would never change And it all stops We were always sure that we would stay the same But it all stops And we close our eyes to sleep To dream a boy and girl Who dream the world is nothing but a dream
Where did it go? Where did it go? Broken voiced lament to call us home This is the end of every song we sing Where did it go? Where did it go? Where did it go? Where did it go? Broken voiced lament to call us home This is the end of every song we sing, alone
(Robert James Smith, 2024)
Il brano è ispirato alla poesia "Dregs" di Ernest Cristopher Dowson.
Dregs
The fire is out, and spent the warmth thereof, (This is the end of every song man sings!) The golden wine is drunk, the dregs remain, Bitter as wormwood and as salt as pain; And health and hope have gone the way of love Into the drear oblivion of lost things. Ghosts go along with us until the end; This was a mistress, this, perhaps, a friend. With pale, indifferent eyes, we sit and wait For the dropped curtain and the closing gate: This is the end of all the songs man sings.
May I be ardently devoted to God! And before I desire the end of existence, And before the broken foam shall come upon my lips, And before I become connected with wooden boards, May there be festivals to my soul! Book-learning scarcely tells me Of severe afflictions after death-bed; And such as have heard my bardic books They shall obtain the region of heaven, the best of all abodes."
(Taliesin's First Address, The Book of Taliesin, I)
"E prima che io esistessi, Lui mi aveva percepito.
Possa io essere ardentemente devoto a Dio!
E prima che desideri la fine dell'esistenza,
E prima che la schiuma spezzata venga sulle mie labbra,
E prima che diventi legato alle tavole di legno,
Possano esserci festival per la mia anima!
Lo studio dei libri a malapena mi racconta
Delle gravi afflizioni dopo il letto di morte;
E quelli che hanno ascoltato i miei libri bardici
Otterranno la regione del cielo, la migliore di tutte le dimore."
Berlino è un luogo in cui trovare ispirazione. Tra le sue strade si respira un'aria piuttosto meditativa e originale. Il tempo non scorre in un flusso lineare; lo spazio è organizzato in modo poco tradizionale. I confini tra centro e periferia sono sfumati e confusi: l'ombra del muro, le cui tracce sono meticolosamente conservate ovunque sul terreno, sposta e ridefinisce di continuo i riferimenti. I palazzi dell'ex-DDR, i nuovi grattacieli, le architetture imperiali e le pesanti sperimentazioni di inizio '900 in mattoni rossi convivono pacificamente in schizofrenica disarmonia. Potsdamer Platz non ha più nulla della distesa deserta e polverosa di Wim Wenders, è un luogo di passaggio e di aggregazione in cui, accanto alle vestigia sottovetro vagamente inquietanti dello storico Hotel Esplanade e al primo semaforo europeo, troneggiano architetture fin troppo grandiose come il Sony Center, spettacolare e un pò fuori contesto, eppure in certa misura introspettivo con la sua forma avvolgente e il tetto a ombrello, trasposizione in cavi e acciaio del monte Fuji. Sedendo a uno dei caffè del centro, ho provato la sensazione ovattata di trovarmi all'interno di una conchiglia.
La città, per un viaggiatore che viene dal caos di Roma, è inverosimilmente calma. I luoghi più visitati come i musei d'arte o di interesse storico legati alla seconda guerra mondiale e al muro, attraggono molti visitatori, gruppi numerosi, scuole. La natura dei luoghi e la loro storia impongono tacitamente una cautela che ovunque ho trovato rispettata. Non dovrebbe essere sorprendente, eppure non mi sono mai sentita tanto a mio agio. Di certo aiuta un controllo capillare ed efficace. Forse si tratta della natura stessa del viaggiatore che si avvicina a una città come Berlino in cui il peso della storia, di una storia recente, è vivo, trasuda ad ogni angolo, si respira, si vede. Non può e non vuole essere ignorato. In metropolitana, ad Alexanderplatz, alla stazione dello Zoo, una umanità varia e brulicante vive il suo tempo. Il tempo e il divenire sono particelle di materia disperse nell'aria, come una coscienza percepibile. A volte è il silenzio mentre le voci si accavallano, un fermo immagine quando tutto è in movimento.
Anche qui come altrove tutto è cambiato, dicono, e intendono dire che qualcosa di unico è andato perduto per sempre. Eppure permane una spiccata intensità, una specificità interna simile a una forma di resistenza. Come una certa immunità alla massificazione, che si manifesta nei tanti modi di vestire, di pettinarsi. Ti guardi intorno e ti senti strano. Sei lì per visitarla, ma in qualche modo finisci per essere tu l'oggetto osservato, anche se nessuno sembra far caso a te o agli altri. Una piccola scintilla si accende, un minuscolo scatto di crescita. Non vorresti proprio sentirti così ordinario.
Si affermano
a metà degli anni ’80 (Such a Shame, 1984, It’s My Life, 1984)
La voce di
Mark Hollis è strana, nasale e stirata, dà l'impressione che sotto le ritmiche
elettroniche accattivanti vibrino corde di altra natura in cerca di una strada
per uscire allo scoperto.
Questo fa sì
che anche i brani da classifica risuonino come qualcosa di più astratto, di un'intenzione più profonda. I testi, piuttosto scarni, confermano questa
sensazione. Tra i vaghi afflati esistenziali trapela l'eterno dilemma dell'artista diviso tra
ricerca della fama e desiderio di esprimersi liberamente, dire quello che si vuole come si vuole.
In
'It's my Life' Mark Hollis scrive "Convinco me stesso (...) E' la mia vita
(...) Convinco me stesso (...) Perso tra la folla (...) E mi sono chiesto,
quanto impegno ci metti (...) Non dimenticare (...) Preso tra la folla (...) E'
la mia vita Non finisce mai"
La discografia conta cinque album in studio del gruppo
e un album di Mark Hollis da solista, oltre alle raccolte e agli album dal
vivo.
1982 The Party’s Over
1984 It’s My Life
1986 The Colour of Spring
1988 The Spirit of Eden
1991 The Laughing Stock
1998 Mark Hollis
The Colour of Spring arriva dopo soli quattro anni dai primi successi, ed è considerato un album di transizione verso una musicalità più intima e ricercata, e le cose si fanno interessanti.
Il testo di “I don’t believe in you” mi sembra emblematico,
e lo trascrivo per intero:
Ora il divertimento è finito
Now the fun is over
Dove iniziano le parole? Where do words begin?
Sto cercando di trovare la strada da percorrere I'm trying to find the path ahead
In qualunque modo tu lo dica Any way you say it
La farsa continua The charade goes on
Ma i tuoi occhi non lo vedranno But your eyes won't see it
E' la stessa vecchia canzone It's the same old song
Non ti credo I don't believe you
Non ti credo I don't believe you
Promesse così d'oro Promises so golden
Gli anni hanno dimostrato che si sbagliavano Years have proved them wrong
Sto cercando di lasciare un po' di rispetto per me
stesso I'm trying to leave some self-respect
In qualunque modo tu lo dica Any way you say it
Il nostro declino continua Our decline goes on
Ma il tuo orgoglio non ci darà ascolto But your pride won't heed it
E' la stessa vecchia canzone It's the same old song
Non ti credo I don't believe you
Non ti credo I don't believe you
Io no, non credo in te I don't, I don't believe in you
E il modo in cui lo giochi And the way you play it
È il modo in cui lo desideri Is the way you want
In qualunque modo lo canti Any way you sing it
E' la stessa vecchia canzone It's the same old song
Non ti credo I don't believe you
Non ti credo I don't believe you
Non ti credo I don't believe you
Non ti credo I don't believe you
The Spirit of Eden e The Laughing Stock proseguono su
questa strada perfezionandola, creando universi musicali più astratti e atmosfere più rarefatte. Nei testi si fa strada la spiritualità.
Nel 1998 arriva l'album solista di Mark Hollis, l'ultimo, in cui abitano sonorità jazz, melodie sospese, e
silenzi. La voce colora il tutto di tonalità calde, di una profondità senza peso.
Di seguito I don’t believe in you, da The Colour of Spring:
Inheritance, da The Spirit of Eden:
Mark Hollis si è eclissato dopo il suo primo e unico album solista, ritirandosi del tutto dalla scena musicale. Già dal 1986 aveva scelto di non esibirsi più dal vivo.
Muore nel 2019.
In una bella intervista per la televisione danese rilasciata nel 1998 dopo l'uscita del suo album da solista, Mark Hollis appare timido, sincero, disarmante.
Sul ruolo della voce ha ovviamente molto da dire (mi scuso per eventuali errori di traduzione).
M.H.: Devi trattare la voce come uno strumento, non deve dominare, deve inserirsi nel paesaggio insieme a tutto il resto - devi vederla da un punto di vista melodico, le inflessioni devono riverberare una luce simile. Pensa ad esempio ad un clarinetto, a certe note che devono avere un certo suono - e così quando scrivi un testo devi prendere un certo blocco e inserirlo anche da un punto di vista fonetico, affinché quando canti suoni in un certo modo. Quando scrivi il testo devi farlo in modo che quando canti risulti credibile. E così che lavoro, parto da questo assunto. Hai a disposizione un gran numero di parole con quel particolare suono, e questo rende le cose più difficili, ma è così che riesci ad ottienere il risultato. Il testo è molto molto importante, perché dal punto di vista del canto, per una buona performance, devi credere in ciò che canti, e per fare questo devi scrivere qualcosa che abbia potere quando lo usi.
Giornalista: Quindi non significa niente per te il fatto che io, come ascoltatore, possa non comprendere realmente il testo.
M.H.: No, è come se scrivessi le poesie di Stéphane Mallarmé, come se fossero poesie francesi, ed è lo stesso per me quando ascolto per la prima volta quel certo pezzo di musica, amo semplicemente la musica per ciò che è la musica, e il fatto che non posso capire il linguaggio è una considerazione assolutamente secondaria. Poi, poter trovare la traduzione è una specie di bonus. E' di importanza fondamentale nella performance, ma è leggermente secondario in termini di ascolto.
Giornalista: Il silenzio è importante per te, non c'è silenzio solo tra un brano e l'altro, c'è silenzio anche all'interno dei brani.
M.H.: Assolutamente. Prima di suonare due note, impara a suonare una sola nota. E' semplice, si tratta solo di questo. E non suonare nemmeno una nota, se non hai una ragione per farlo. Amo il silenzio, non ho alcun problema con il silenzio. E' soltanto silenzioso. E se stai per romperlo entrandoci dentro, cerca di avere una buona ragione per farlo.
Le ossessioni di Paul Auster avvinghiano lentamente. I suoi fantasmi sono parole e cose sempre troppo slegate o troppo legate a scarni significati, maschere, specchi, percorsi oscuri, gorghi mentali, vane strategie di ricerca di un'identità che gioca irrimediabilmente a rimpiattino, luoghi apparentemente familiari che diventano labirinti in cui smarrirsi prima di rendersi conto di aver percorso un solo passo. Palazzi, strade, vicoli, muri, finestre, porte, si chiudono in trappole mortali. L'immobilità si tramuta silenziosamente in una spirale senza uscita. Batte sempre il rintocco sordo e pesante della letteratura, l'ombra persecutoria ma anche irrinunciabile di poeti e scrittori, Milton, Melville in Città di vetro, Walt Whitman, Henry David Thoreau in Fantasmi. I protagonisti qui sono molte cose e nessuna, sono anche ombre di scrittori. La solitudine è così profonda da non rappresentare un ostacolo o una sofferenza, semplicemente i rapporti umani o familiari sono impossibili, crudeli o fallimentari. Non so ancora dove e attraverso quali ribaltamenti repentini di situazioni sul filo della follia si cercherà Auster ne La stanza chiusa. Di certo il titolo anticipa eloquentemente quanto dovrò attraversare ancora di claustrofobico.
"E poi più importante di tutto: ricordare chi sono. Ricordare chi dovrei essere. Non credo che questo sia un gioco. D'altra parte, non c'è niente di chiaro. Per esempio: tu chi sei? E se pensi di saperlo, perché continui a mentire? Non ho risposta. Non posso dire altro che questo: ascoltami. Mi chiamo Paul Auster. Non è il mio vero nome."
Paul Auster, Trilogia di New York, Città di vetro.
"Non devo dimenticare la mia timidezza davanti alle porte chiuse. La mia lotta interiore sul bussare troppo forte o non abbastanza forte... E' profonda, profonda, profonda: è, di fatto, la "spiegazione" del fallimento di KM come scrittrice fino a oggi."
Katherine Mansfield, La vita della vita - Diari 1903-1923
E al mattino al mio risveglio Cerco in cielo gli aironi E il profumo bianco del giglio Cerco in tutte le canzoni E in un passero sul ramo Uno spunto per la rivoluzione Cerco il filo di un ricamo Un accordo in la minore Per gridare forte t'amo Se ho degli attimi di rancore Cerco te e la tua bocca Nei tuoi occhi trovo amore
Cerco la mia malattia In un bar e nelle carte La mia dannata periferia Cerco gli occhi di chi parte Di chi si ferma e chi va in fretta La sincerità nell'arte
Cerco il punk in una lametta La felicità ed il dolore Nel fumo di una sigaretta Se ho degli attimi di rancore Cerco te e la tua bocca Nei tuoi occhi trovo amore
Era bello conoscere le persone quando non le conoscevi e desideravi conoscerle
Quando tutto accadeva per caso, lungo la strada
Era bello passeggiare per le strade di Roma e sentire in anticipo la dolce resa dell'aria di settembre
Quando i passi si destreggiavano tra l'asfalto molle e i gibbosi sanpietrini
Era bello guardare con interesse gli occhi degli altri
Quando il corpo avvertiva il curioso scandaglio di uno sguardo e lievemente irrigidiva, e prendeva coscienza dello spazio che occupava
Era bello il caldo ed era bello il freddo
Quando anche gli altri come me sbuffavano accostando meglio la lana della sciarpa intorno al collo
Era bello non sospettare la stupidità dietro la fronte di ogni donna e di ogni uomo
Quando era facile sentirsi a proprio agio sotto la campana del proprio disagio
"Chi vive il terrore in solitudine, chi non è membro di una comunità, continuerà a cercare una comunità immune da paure, e coloro che detengono il controllo dell'inospitale spazio pubblico continueranno a promettergliela. Senonché, le uniche comunità che le persone isolate possono sperare di costruire e gli amministratori dello spazio pubblico possono seriamente e responsabilmente offrire sono quelle permeate di paura, sospetto e odio. (...) Il mondo contemporaneo è un contenitore pieno fino all'orlo di una paura e di una disperazione erratiche, alla ricerca disperata di sfoghi. " (Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale)
[...] L’importante e il gregario parlavano col proprietario della bettola e ridevano, come vecchi amici rimpatriati da qualche passato di cui compiacersi. Quando l’importante la vide arrivare le piantò le ciglia curve addosso smettendo di ridere. Lei lo fissò, e pensò che in quel singolo momento lo stava davvero controllando ma non aveva la minima idea di come usare quel controllo. E il fatto era che se non riusciva a capirlo, presto si sarebbe ritrovata bloccata in un intreccio psicotropo di volontà maschili enormemente più vivide delle sue.
Adesso sarebbe impossibile concentrarsi su queste cose, per via degli smartphone e dei tablet. C’è questa astrazione psicosomatica da commento o gioco o condivisione che simula una partecipazione globale e continua, la presenza costante in un’area comune del tempo che anestetizza il presente, imbrigliando le possibilità di includersi realmente in qualcosa. [...]
"C'è, nel motivo popolaresco della musica, semplice come uno stecco eppure carico di secoli, qualcosa che precisamente diceva addio, con potenza d'amore per quello che fu e mai ritornerà e nello stesso tempo un confuso presentimento di cose che un giorno verranno, forse, perché la musica vera è tutta qui nel rimpianto del passato e nella speranza del domani, la quale è altrettanto dolorosa. Poi c'è la disperazione dell'oggi, fatta dell'uno e dell'altra. E fuori di qui altra poesia non esiste."
Dino Buzzati, Un amore (Buzzati, Opere scelte, Mondadori, I Meridiani, 1998)
"Ma l’odio non è germogliato all’improvviso. Oh no. Io ho visto la gente di Budapest cambiare. Un pomeriggio dello scorso inverno, poco prima dell’invasione tedesca, ero sul tram quando sono saliti due zingari. Tra i passeggeri si è creata subito tensione. Gli sguardi bassi accompagnavano il silenzio che iniziava a rotolare lento; le parole si spegnevano a canone, prima le voci di quelli dietro quindi di quelli davanti. In un istante, il silenzio ha invaso tutto il tram. Le mani stringevano più forte le borsette o affondavano ancor più nelle tasche. Il controllore ha chiesto ai due zingari i biglietti. Erano anziani. Probabilmente erano arrivati a Budapest da poco. Hanno mostrato il loro biglietto. Il controllore ha detto che non andava bene. Tutti noi che eravamo lì abbiamo visto che il tagliando esibito era corretto. Nessuno ha fatto niente. Neanche io." Una storia ungherese - Margherita Loy